“Verso la fine della vita tra etica e diritto”

Il 14 Marzo 2019 abbiamo discusso della recente legge sul cosiddetto del Testamento Biologico insieme al Dr. Alfredo Zuppiroli, Medico Cardiologo, Presidente della Commissione Regionale di Bioetica.

Ecco una sua sintesi:

La legge 219/2017, in vigore dal 31 gennaio 2018, segna un deciso cambiamento di paradigma in quanto pone la persona al centro della cura, concretamente coinvolta nelle decisioni che la riguardano, soprattutto nelle fasi finali della vita. La legge prevede infatti la possibilità per il paziente di rifiutare le cure (comprese l’idratazione e la nutrizione artificiali, questa è una delle novità più significative) e nei casi a prognosi infausta a breve termine impone ai medici il dovere di astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure. La riflessione si è particolarmente soffermata sugli articoli 1 (Consenso informato) e 5 (Pianificazione condivisa delle cure), sottolineando l’importanza del tempo da dedicare alla relazione di cura, in modo da favorire al meglio la saldatura tra l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico.

Ora la società italiana dispone di un testo molto chiaro, nel quale i diritti civili connessi alle relazioni di cura – che del resto trovano un loro saldo fondamento negli articoli 2, 3, 13 e 32 della nostra Costituzione – sono esplicitati nell’ambito di tematiche specifiche quali il consenso informato, la terapia del dolore, il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e la dignità nella fase finale della vita, i trattamenti rivolti ai minori ed agli incapaci, le disposizioni anticipate di trattamento e la pianificazione condivisa delle cure.

Partiamo proprio dalle parole del comma 1 dell’articolo 1: la nuova legge “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne nei casi espressamente previsti dalla legge”. Si tratta di parole chiare, che ribadiscono con la forza del diritto ciò che da oltre vent’anni è sancito dal Codice di Deontologia Medica: nella versione del 1995 all’articolo 31 si poteva infatti leggere per la prima volta che “Il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato”.

La legge ci ricorda, all’articolo 1, comma 3, che ogni persona ha il diritto di “conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”. Purtroppo, a fronte di queste inequivocabili enunciazioni, assistiamo nella pratica clinica quotidiana a comportamenti che sistematicamente disattendono il dettato normativo. Il nocciolo della questione non è tanto quello del consenso quanto quello dell’informazione e della comunicazione. Spesso la reticenza ad informare la persona interessata è rivestita delle migliori intenzioni, nella convinzione che il dire la verità al paziente lo traumatizzi psicologicamente ed in fin dei conti possa anche pregiudicare l’efficacia delle cure mediche. Senza pretendere di disconoscere le buone intenzioni che possono animare un familiare o anche i sanitari che si prendono cura di un ammalato, la legge ci viene in aiuto quando ci ricorda, sempre nello stesso comma 3, che ogni persona “Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”. Se c’è dunque per i sanitari un dovere di informare il paziente sulle sue condizioni di salute, dovere che consegue al diritto del paziente stesso ad essere informato, la legge opportunamente riconosce al paziente anche il diritto di non sapere, per cui il sanitario deve rispettare questa volontà ed evitare di dire sempre e comunque la verità. Al di fuori di questa specifica situazione non si dà altra possibilità: se un medico non dice la verità al paziente contravviene ad una precisa norma giuridica, oltre che deontologica ed etica.

Non si può inoltre non sottolineare l’estrema novità delle parole contenute nel comma 5 dell’articolo 1: “Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”. Questo passo della legge spazza via decenni di polemiche semantiche su cosa sia un trattamento sanitario e cosa invece una semplice forma di sostegno vitale, come se una definizione a tavolino diversa da un’altra potesse cambiare la sostanza della questione: comunque la si voglia chiamare, chi ha il diritto di decidere se effettuare una PEG o no, se non il diretto interessato?

Certo, per dare sostanza etica, per animare di profondo significato ogni decisione che riguarda la propria salute, soprattutto quando questa si fa precaria, è necessario tempo, tanto tempo da dedicare dapprima all’ascolto, poi alla comunicazione. E, molto opportunamente, il legislatore ci ricorda al comma 8 che “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. Un concetto che raramente ha trovato riconoscimento nelle regole organizzative della Sanità, dove una malintesa ottica aziendalista ispirata a criteri di efficienza ha ridotto la relazione tra curati e curanti alla fase di un processo produttivo di beni e servizi.

Fortemente innovativo è l’articolo 5, dedicato alla pianificazione condivisa, tra paziente e medici, del programma di cura in casi di malattie croniche in fase molto avanzata: solo così si può infatti garantire che il paziente eviti di essere sottoposto a trattamenti sproporzionati in eccesso ma anche, all’opposto, che il paziente possa ricevere i trattamenti che lui giudica per se stesso appropriati. Il rischio che certe decisioni seguano più la logica dell’economia sanitaria che quella dell’interesse del paziente non è da trascurare! Uno strumento molto semplice in questo contesto è dato dalla cosiddetta surprise question: se dopo la visita di un malato, alla domanda se saremmo sorpresi se morisse entro pochi mesi la risposta è “no”, abbiamo ora a disposizione lo strumento normativo per dare voce ai desideri ed alle preoccupazioni del malato stesso, al controllo dei sintomi piuttosto che alla lotta contro una malattia che ha ormai preso il sopravvento, all’aiuto alla famiglia, alla continuità delle cure, al supporto spirituale.

Abbiamo dunque una legge che disegna lo scenario in cui le cure tradizionali possono e devono saldarsi con quelle palliative. Ecco che allora i modi e i luoghi della cura di una persona affetta da malattia cronica in fase avanzata non restano più confinati all’ospedale, ma devono integrarsi con il domicilio del paziente e/o con residenze territoriali ad hoc, dove agli specialisti ed alle loro tecniche diagnostiche e terapeutiche si affiancano, con ruolo di crescente importanza, i professionisti formati in cure palliative. Sappiamo che la maggior parte dei pazienti con malattie in fase avanzata esprime la preferenza di passare il maggior tempo possibile nella propria casa: il ricorso a un’alta intensità di cura, allora, si configura come inappropriato non solo sul piano etico e clinico, vista la fase molto avanzata di malattia, ma anche giuridico.

In conclusione, non possiamo non salutare con favore una legge che aspettavamo da tanto, troppo tempo. Da più di un anno ormai abbiamo norme chiare e precise, cui deve far seguito un deciso cambiamento nella prassi clinica di tutti i giorni.

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